mercoledì 22 settembre 2010

LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI

"I numeri primi sono divisibili soltanto per 1 e per se stessi. Se ne stanno al loro posto nell'infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo in là rispetto agli altri. Sono numeri sospettosi e solitari e per questo Mattia li trovava meravigliosi. Certe volte pensava che in quella sequenza ci fossero finiti per sbaglio, che vi fossero rimasti intrappolati come perline infilate in una collana. Altre volte, invece, sospettava che anche a loro sarebbe piaciuto essere come tutti, solo dei numeri qualunque, ma che per qualche motivo non ne fossero capaci. Il secondo pensiero lo sfiorava soprattutto la sera, nell'intrecciarsi caotico di immagini che precede il sonno, quando la mente è troppo debole per raccontarsi delle bugie. 
In un corso del primo anno Mattia aveva studiato che tra i numeri primi ce ne sono alcuni ancora più speciali. I matematici li chiamano primi gemelli: sono coppie di numeri primi che se ne stanno vicini, anzi  quasi vicini, perchè fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero. Numeri come l'11 e il 13, come il 17 e il 19, il 41 e il 43. Se si ha la pazienza di andare avanti a contare, si scopre che quese coppie via via si diradano. Ci si imbatte in numeri primi sempre più isolati, smarriti in quello spazio silenzioso e cadenzato fatto solo di cifre e si avverte il presentimento angosciante che le copppie incontrate fino a lì fossero un fatto accidentale, che il vero destino sia quello di rimanere soli. Poi, proprio quando ci si sta per arrendere, quando non si ha più voglia di contare, ecco che ci si imbatte in altri due gemelli, avvinghiati stretti l'uno all'altro. Tra i matematici è convinzione comune che per quanto si possa andare avanti, ve ne saranno sempre altri due, anche se nessuno può dire dove, finchè non li si scopre.
Mattia pensava che lui e Alice erano così, due primi gemelli, soli e perduti, vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero. A lei non l'aveva mai detto. "
(Paolo Giordano - "La solitudine dei numeri primi", pag.129)
...Questo brano è il cuore del romanzo di esordio di Paolo Giordano, vincitore del Premio Strega 2008, allora ventiseienne e laureato in fisica teorica.
Per chi si sia chiesto cosa abbia fatto Paolo dopo questo primo successo letterario, la risposta, o almeno una delle risposte, è arrivata con la presentazione in concorso a Venezia del film tratto dal suo libro, di cui Giordano è co-sceneggiatore insieme al regista Saverio Costanzo (sì... proprio il figlio di "quel" Costanzo).

Avendo subìto il fascino del romanzo, ho voluto vedere il film non appena uscito in sala; ero veramente curiosa di scoprire come la storia di  due personaggi così particolari come Mattia e Alice potesse essere traslata sul grande schermo. A mio parere il libro era un meritatissimo Premio Strega, con una profondità, una complessità nei personaggi e nella scrittura a tutti gli effetti incredibili per un ragazzo che nella sua vita più che alla parola scritta dovrebbe essere abituato a calcoli ed equazioni.

Mi sono tornate in mente le parole che ho citato in apertura perchè nel film quelle frasi sono pronunciate da Viola, la nemica-amica di Alice, nel giorno del suo matrimonio, una soluzione che mi ha lasciata un po' perplessa: primo perchè queste parole si capiscono a malapena, secondo perchè nel contesto del matrimonio non hanno troppo senso... Chi non ha letto il libro non trova particolari riferimenti per interpretare il titolo nel film.

A parte questo Costanzo (e Giordano) costruiscono tutta una serie di rimandi tramite flashback che tracciano ponti tra la vita adulta e quella dell'infanzia dei protagonosti, periodo a cui risalgono i loro traumi mai sopiti. Una delle scelte più azzeccate è quella degli attori: Mattia e Alice bambini e poi adolescenti, fino all'età adulta in cui sono interpretati dall'esordiente Luca Marinelli e da Alba Rorhwacher, hanno volti e corpi che parlano per loro, che invece di parole ne dicono pochissime.
Alba Rohrwacher

Luca Marinelli

Altra figura che mi ha impressionato è quella di Viola, interpretata dalla giovanissima Aurora Ruffino: non poteva esserci volto più azzeccato per incarnare il fascino della cattiveria. Il sorriso di Viola è ammaliante e splendente, eppure diabolico, con tutta la potenza di una cattiveria adolescente, quasi ignara delle conseguenze che può suscitare.

Aurora Ruffino
Molto intrigante la scena iniziale: anzichè riproporre quella del libro, sicuramente impressa nella mente di tutti i lettori, Costanzo apre il film con la piccola Alice che guarda un episodio emblematico del cartone Lady Oscar, talmente presa da avere le lacrime agli occhi.

Molto più avanti, un'altra scena memorabile è quella del ritorno di Mattia, con un'Alice anoressica e zoppicante, quasi uno zombie vivente nella sua casa da donna separata, che all'arrivo di Mattia si prepara per lui con la musica di Bette Davis Eyes sparata a tutto volume, convulsamente, con la gioia frenetica di un incontro inaspettato e desiderato tantissimo.

Le musiche hanno un ruolo clou nel film, con incursioni nella discografia anni 80 e un leit motiv tanto azzecato quanto inquietante che accompagna i flash back dei ricordi del liceo. Costanzo utilizza  infatti alcune soluzioni che virano quasi all'horror, come la scena della festa di compleanno dove Filippo Timi interpreta un grottesco clown.

Un film ben fatto, che tuttavia non trasmette la stessa intensità del romanzo, anche perchè molto del libro viene - per forza di cose - tagliato e questo pregiudica non poco la complessità dei personaggi e della storia. Certo è anche un film un po' scomodo: i due protagonisti sono figure che possiamo capire e in cui possiamo arrivare ad identificarci per alcuni aspetti, ma in cui risulta difficile immedesimarsi del tutto. Mattia e Alice sono entità "atomiche", possono sfiorarsi, ma non arrivano mai a toccarsi, sono corpi ermetici che non si compenetrano: non a caso nel film non c'è nemmeno una scena di sesso. L'unica forma di intimità tra loro possibile è quella di andare avanti fianco a fianco, sapendo di essere sempre l'uno accanto all'altra. E' questo lo scenario che dischiude il finale (che avrei preferito meno abbozzato):  pur nella loro peculiarità, pieni di ferite in quei corpi così ermetici, Mattia e Alice sembrano aver trovato una chiave per la loro vita, una propria dimensione.




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