L'inizio è sempre la parte più importante... o quasi. L'incipit di un romanzo, la scena iniziale di un film, lo sguardo sull'altro che fa scattare il colpo di fulmine. Dunque... come iniziare questo blog? O meglio: da dove iniziare per non cadere nelle banalità da flusso di coscienza?
Sono rientrata due giorni fa dalla 67° Mostra del Cinema di Venezia e, a parte il clima umido della laguna, l’anarchia dei capelli al vento durante gli spostamenti in vaporetto, le pose delle star ai flash dei fotografi sul tappeto rosso e le maratone di visione collettiva, ci sono state alcune proiezioni che mi hanno lasciato impressioni durature.
Vorrei parlare della pellicola fino ad oggi più controversa e polemizzata: “Vallanzasca - Gli angeli del male”, il film (fuori concorso) di Michele Placido sulla vita del capo della Banda della Comasina, interpretato da un superbo Kim Rossi Stuart. Il film è stato molto criticato per avere tratteggiato la figura di un delinquente rapinatore e pluriomicida in maniera quasi “eroica”, generando una replica al vetriolo del regista Placido che in questi giorni molto rimbalza nel tam tam mass mediatico (“In Parlamento ci sono molti criminali peggiori di lui”). Effettivamente il ritratto di Vallanzasca che emerge dal film non è quello di un delinquente, e nemmeno quello meno pretenzioso di un antieroe.
Sono rientrata due giorni fa dalla 67° Mostra del Cinema di Venezia e, a parte il clima umido della laguna, l’anarchia dei capelli al vento durante gli spostamenti in vaporetto, le pose delle star ai flash dei fotografi sul tappeto rosso e le maratone di visione collettiva, ci sono state alcune proiezioni che mi hanno lasciato impressioni durature.
Vorrei parlare della pellicola fino ad oggi più controversa e polemizzata: “Vallanzasca - Gli angeli del male”, il film (fuori concorso) di Michele Placido sulla vita del capo della Banda della Comasina, interpretato da un superbo Kim Rossi Stuart. Il film è stato molto criticato per avere tratteggiato la figura di un delinquente rapinatore e pluriomicida in maniera quasi “eroica”, generando una replica al vetriolo del regista Placido che in questi giorni molto rimbalza nel tam tam mass mediatico (“In Parlamento ci sono molti criminali peggiori di lui”). Effettivamente il ritratto di Vallanzasca che emerge dal film non è quello di un delinquente, e nemmeno quello meno pretenzioso di un antieroe.
Kim Rossi Stuart
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Innanzitutto la bellezza: le categorie di “bello/buono” e “brutto/cattivo” in Vallanzasca perdono la loro ragion d’essere. Vallanzasca era bello (non a caso fu soprannominato il bel Renè) e Kim Rossi Stuart con la sua presenza scenica riesce veramente a sublimare il fascino algido e insieme carnale del suo personaggio, ma quello che emerge è l’ “umanità” di Vallanzasca, che nonostante le sue azioni criminali non è rappresentato come una bestia feroce - e in questo gioca molto anche l’estetica di Kim. Pur essendo un pazzo furioso - uno capace di uccidere (solo se non ci sono alternative), uno che per convincere i suoi carcerieri ad essere mandato fuori di prigione per vedere il figlio neonato si taglia il petto con un vetro e fa fare altrettanto al suo compagno di cella, in lacrime; uno che ingoia chiodi foderati nel chewing gum per sentirsi male, essere portato in infermeria e riuscire ad evadere, un donnaiolo impenitente anche con un proiettile conficcato in una gamba - nonostante tutto questo, nonostante il limite fra normalità e follia sia così spinto all’estremo, Vallanzasca è umano nella sua ironia espressa con marcato accento milanese, nell’affetto verso i genitori che continuano a difenderlo e ad amarlo anche quando è condannato all’ergastolo (può essere altrimenti?), nella passione verso Consuelo, la madre di suo figlio che lo lascia per un imprenditore e una vita più sicura, nella sofferenza per la perdita del fratello (l’evento traumatico all’origine della sua vita criminale) e in seguito dell’amico Fausto. Ma Vallanzasca è anche colui che uccide senza pietà il compagno traditore, perso nel buco nero della droga e dell’invidia.
È un leader il bel Renè. Il suo carisma, prima ancora della sua bellezza, è ciò che lo rende così irresistibile alle donne, che in carcere lo sommergono di lettere, tanto che alla fine quasi per gioco sposa una di queste sue ammiratrici. Ma il carisma è ciò che lo rende attraente anche agli uomini, rispettato e temuto persino dai suoi carcerieri, perché comunque vada lui ne esce sempre in piedi. Che lo si voglia o no, è un vincente.
E’ questo a mio parere il punto cruciale del film di Michele Placido, e il seme di tutte le polemiche al riguardo. Aldilà delle distinzioni morali tra giusto e sbagliato e oltre quella che è pur sempre la trasposizione cinematografica di una storia vera, che giocoforza inserisce degli elementi romanzati, Placido ci trasmette delle (scomode) verità di fondo.
In un’intervista televisiva il vero Vallanzasca dice di non avere mai sparato per primo e mai alle spalle, lo ha fatto solo per necessità e quindi senza tradire il suo “codice deontologico”. Vallanzasca quindi si sente a posto con se stesso nonostante la vita da criminale, perché lui è profondamente convinto di essere nato per fare il ladro. Con questa consapevolezza ha affrontato tutta la sua esistenza.
Quello che emerge da questa storia e dal film è un’evidenza che come minimo ci fa storcere il naso: difficilmente si può cambiare ciò che siamo, anzi diciamo pure che è quasi impossibile. Gli eventi, le circostanze esterne possono modellarci, scalfirci, a volte portarci a tagli drastici, ma la natura profonda non si cambia, è inscritta nel nostro codice genetico. Vallanzasca è nato per fare il ladro, nella sua testa, nel suo “codice deontologico” il confine fra bene e male, giusto e sbagliato è spostato dalla linea di ciò che è definito la norma, ma quello è. Con un comportamento “normale” semplicemente non sarebbe stato lui. La natura profonda non si modifica, se non andando contro se stessi, nel bene e nel male.
Nell’assecondare la sua natura così fedelmente Vallanzasca l'ha sempre scampata, è in carcere ma è ancora vivo, fondamentalmente è un vincente e ciò è alla base della fascinazione che esercita sia sugli uomini sia, soprattutto, sulle donne.
Cosa ha attratto così follemente tutte le donne innamorate di lui che in carcere lo hanno riempito di lettere come un divo del cinema? Qual è il segreto del suo magnetismo, oltre alla faccia d’angelo, gli occhi chiari e la “scafatezza” del seduttore?
In altre parole: perché questa follia femminile e collettiva verso quello che è a tutti gli effetti un criminale? A mio parere il masochismo non c'entra. Semplicemente, figure sulla scia di Vallanzasca attraggono perché sono quelli che nella vita cadono sempre in piedi. E alla fine dei giochi è questo quello che conta. Vallanzasca è un delinquente, ma si fa beffe persino del giudice in tribunale. E non è considerato un povero cretino per questo, anzi. La sua immagine è quella di una persona dall’intelligenza acuta e dal carisma magnetico. Per questo gli uomini lo rispettano e le donne sono visceralmente attratte da lui. Perché risveglia l’animale che millenni di evoluzione hanno soltanto sopito nel corpo femminile, l’istinto primitivo secondo il quale fare un figlio con un uomo del genere gli trasmetterà la giusta dose di pelo sullo stomaco per stare al mondo. L'evoluzione della specie e tutto il resto...
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