Lo ammetto, ero carica di aspettative. Film presentato a Venezia, una storia vera e forte, grande cast, grande regista (David Cronenberg). E devo dire che formalmente è impeccabile, eppure non mi ha convinto, anzi a tratti l'ho trovato noioso. La figura cardine è quella di Carl Gustav Jung, interpretato da Michael Fassbender: giovane promessa della psicoanalisi, dapprima è accolto da Freud (Viggo Mortensen) sotto la sua ala e ne è l'erede designato. Poi le loro visioni iniziano a divergere. Nel frattempo Jung, non senza sensi di colpa verso la devota moglie Emma, intreccia una relazione di stampo sadomasochistico con la sua paziente Sabine Spielrein (Keira Knightley) che diventerà a sua volta psicoanalista. A dimostrazione del fatto che 'nessun medico può guarire se non ha una ferita dentro'.
Se i due protagonisti maschili (e Vincent Cassel, che interpreta il ruolo di Otto Gross, psicoanalista oppositore di Freud) sono magistrali nelle loro interpretazioni, lo stesso non si può dire di Keira Knightley, che aldilà delle contorsioni e degli spasmi durante le crisi nervose, è fondamentalmente inespressiva e incapace di dare un valore aggiunto al personaggio di Sabine.
La relazione e l'affinità elettiva tra i due padri della psicoanalisi è ben tratteggiata, così come lo sono le differenze tra i due (anche di status sociale: Freud ebreo, l'altro ariano e con una moglie 'ricchissima'). Si percepisce l'intensità del loro rapporto, meno quella della relazione tra Jung e Sabine, aldilà di risvolti sessuali alquanto didascalici. La passione tra i due io non l'ho sentita.
Molto ben delineato è invece il conflitto piscologico di Jung, in lotta contro i suoi istinti verso Sabine e verso le sue idee, sempre più divergenti rispetto a quelle di Freud. Fino a prendere consapevolezza che 'a volte è necessario fare qualcosa di imperdonabile per continuare a vivere'.
Se i due protagonisti maschili (e Vincent Cassel, che interpreta il ruolo di Otto Gross, psicoanalista oppositore di Freud) sono magistrali nelle loro interpretazioni, lo stesso non si può dire di Keira Knightley, che aldilà delle contorsioni e degli spasmi durante le crisi nervose, è fondamentalmente inespressiva e incapace di dare un valore aggiunto al personaggio di Sabine.
La relazione e l'affinità elettiva tra i due padri della psicoanalisi è ben tratteggiata, così come lo sono le differenze tra i due (anche di status sociale: Freud ebreo, l'altro ariano e con una moglie 'ricchissima'). Si percepisce l'intensità del loro rapporto, meno quella della relazione tra Jung e Sabine, aldilà di risvolti sessuali alquanto didascalici. La passione tra i due io non l'ho sentita.
Molto ben delineato è invece il conflitto piscologico di Jung, in lotta contro i suoi istinti verso Sabine e verso le sue idee, sempre più divergenti rispetto a quelle di Freud. Fino a prendere consapevolezza che 'a volte è necessario fare qualcosa di imperdonabile per continuare a vivere'.
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