martedì 27 novembre 2012

E LA CHIAMANO ESTATE

Sabato pomeriggio sono andata a vedere E la chiamano estate. Da sola. In un cinema di Roma. Chiamatemi folle, ma avevo qualche ora libera e per non rischiare di imbattermi in cortei e manifestazioni ho pensato: ecco la soluzione, il cinema.

E poi questo film volevo vederlo, per quanto consapevole che non mi avrebbe convinto. Però mi intrigava il tema, poco affrontato non solo cinematograficamente ma nemmeno a livello di dibattito pubblico. Adesso sì: dopo un'estate (quella vera) ritmata dai colpi di frusta di Christian Grey, "E la chiamano estate" di Paolo Franchi - primo film prodotto da Nicoletta Mantovani e presentato al Festival del Cinema di Roma - ha scatenato le discussioni sul tema dei matrimoni bianchi, e sul corollario delle pseudo perversioni sessuali di un uomo impotente con la compagna che ama alla follia.

Credo che in questo amore 'folle' stia proprio la chiave di interpretazione. L'amore tra Dino e Anna è malato, per quanto apparentemente i due sembrino una coppia impeccabile. Troppo impeccabile. Alla base di tutto c'è l'incontro tra due persone che nell'altro proiettano le proprie ombre e cercano di colmare le proprie lacune.

Dino (Jean-Marc Barr) ha perso da giovane un fratello suicida, e da allora è convinto di essere un guscio vuoto, una persona che non vale nulla - nonostante la carriera di successo e di responsabilità - e che non potrà mai dare ad Anna tutto ciò di cui lei ha bisogno. E' perseguitato dall'idea degli ex di lei ed è convinto che Anna sia ancora innamorata - assurdamente - di ciascuno di loro. Lei, invece, è un personaggio vuoto, l'ombra di una donna (curiosamente proprio ciò che pensa Dino di sè), la cui unica caratteristica rilevante è quella di essere "troppo buona". Eppure è così solo con Dino, perchè in altri casi - come nel rinnegare il giovane amante, distrazione triste e alcoolica - non ha pietà. Sembra che un certo tipo di donna possa attrarre solo amori morbosi, ossessivi. Ma l'amore per Dino porta Anna a tollerare una relazione non consumata, fingendo soddisfazione. E in fondo le basta la vicinanza di lui per stare bene, ma l'inquietudine la attanaglia sotto un sorriso docile e un atteggiamento ostentatamente seduttivo.

Dino cerca una figura materna, Anna forse ha visto in lui un'apparente solidità, una conferma, uno specchio della sua identità, altrimenti sbiadita. Si perchè la sua vita è sfocata, ed è strano come ad interpretare una donna così poco assertiva possa esserci Isabella Ferrari, coi suoi linemaneti decisi e volitivi, pur con lo sguardo malinconico.

Non mi ha convinto la sua interpretazione, o forse non mi ha semplicemente convinto il suo personaggio. Il protagonista, comunque, è Dino, che grazie allo sguardo liquido e al sorriso aperto di un bravissimo Jean-Marc Barr riesce a trasmettere l'idea della gioia di vivere così come della più profonda disperazione, del bambino ferito e del puttaniere.

Il suo personaggio ha corpo e anima, quello di Anna è debole, poco credibile. Una donna di oltre quarant'anni può tollerare quest'uomo bambino? Può consolarlo e accarezzarlo senza chiedersi dove passi le sue notti? E far finta di credere che faccia i turni in ospedale?

Dino prova a squarciare il velo, le dice 'fatti l'amante'. Lui vorrebbe che lei lo lasciasse, perchè la ama troppo per farla vivere nell'insoddisfazione sessuale. Lei lo zittisce, con espressione a metà fra il materno e il sensuale. Rassegnata. Docile. 

Forse l'idea del regista era proprio quella di trasmettere la sensazione di una relazione eterea proprio perchè (forzatamente) non contaminata dal sesso. Quello che emerge però è la totale inconsistenza e la poca credibilità del rapporto fra Anna e Dino. Non c'è scontro, mai. E la colonna sonora con musiche vintage (tra cui la canzone che dà il titolo al film) contribisce a dare l'idea di qualcosa di irrealistico. Alla fine la musica risulta irritante, così come certi leitmotiv esasperati. E l'eleganza formale del film è maschera di un'infinita freddezza.

Poi c'è tutto quello che avviene fuori da quel letto bianco. Tutto quello che Dino fa: i privé, le orge, le prostitute (bravissima Eva Riccobono nell'interpretazione della bellissima prostituta sfregiata). Tutta la virilità che non emerge con Anna viene tirata fuori da Dino in contesti trasgressivi ma soprattutto in una maniera malata, aggressiva. Dietro alla sua trasgressione c'è disperazione e compulsione, c'è tutta la rabbia di non riuscire a viverle con la donna che ama, certe cose. Eppure il problema è proprio il tipo di amore che ha per Anna, troppo metafisico e ben poco fisico, per quanto il suo corpo lo attragga da morire. 

Anche nel disegno della trasgressione emerge forte una dicotomia tra bene e male che è riduttiva. Il mondo di ciò che è comunemente inteso come tragressione è ritratto come disperato, le coppie che lo abitano sono cupe e volgari. Le donne sono corpi senza volto, carne priva di volontà se non quella che viene loro imposta dall'esterno.

Non mi piace la visione d'insieme che emerge, è dicotomica, irrealistica, disperata. Il film scorre, diventa noioso solo verso la fine, eppure è disarmonico e affettato. Non convince. Se voleva trasmettere il senso di una disperazione, il regista ci riesce, così come riesce - è riuscito - nel far riflettere, nell'aprire un dibattito. Ma l'arte è un'altra cosa, la poesia è altra cosa, la bellezza è altra cosa.



2 commenti:

  1. mi sa che era meglio imbattersi in una manifestazione :)

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  2. No... almeno ho salvato la pelle ;-) E comunque anche nel caso di film che so già in partenza essere poco meritevoli preferisco vedere per poter dire la mia, quantomeno se mi interessa il tema.

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